Dopo il necessario (per me) discorso introduttivo all’argomento, su cui mi sono dilungato nei miei due articoli precedenti (“Macrobiotica: l’eterna incompresa” e “Se permettete… riprendiamo il discorso sulla macrobiotica“), eccoci finalmente giunti all’ ingrato compito di affrontare lo scottante nòcciolo, e cioè a spiegare un pò quali siano i contenuti, i princìpi su cui si fonda la macrobiotica e il loro significato.
Ho detto “scottante” a ragion veduta e per due ordini di motivi, perchè se da una parte (soprattutto su giornali e siti internet) si tende a dare una descrizione o una breve spiegazione all’ insegna della banalità e delle inesattezze, dall’altra, a causa di atavici pregiudizi culturali che la nostra società si prodiga in ogni modo ad alimentare e a corroborare, si ha un atteggiamento di diffidenza verso qualcosa che si percepisce come una semplice filosofìa, con tutte le implicazioni del caso che siamo stati condizionati ad associare a tale termine.
Insomma un dogma da accettare più o meno come si trattasse di convertirsi ad una nuova religione, e non concetti accessibili e comprensibili da chiunque sia dotato di un cervello e sia disposto ad usarlo, condizionati come siamo a credere che quello della scienza sia l’ unico punto di vista degno di considerazione.
Sono da molto tempo convinto che il principale ostacolo al progresso dell’umanità si trovi a livello mentale, che sia dovuto, cioè, proprio a questo tabù psicologico-culturale, a questo pregiudizio che denota scarsa autonomìa intellettiva, e che il valore assoluto attribuito alla scienza sia la più grande mistificazione di tutti i tempi.
E’ una radicatissima e generalizzata convinzione nata da un colossale malinteso, dovuto a sua volta alle prerogative insite nel metodo scientifico, che si propone il massimo rigore formale, la ripetibilità dell’esperimento e quindi l’esattezza e l’oggettività dei risultati.
Ed è effettivamente grazie a tutto ciò che si sono potuti conseguire risultati sorprendenti e giganteschi progressi nel campo della matematica, della fisica (che godono, come si sa, dell’appellativo di “scienze esatte“) e della tecnologìa, spesso al di là delle stesse aspettative.
Ma proprio per la precisione del suo metodo e per la straordinaria efficacia in determinati campi, quasi tutti (scienziati e non) sono portati automaticamente ad attribuire alla scienza competenze che non le sono proprie.
Pochissimi infatti si rendono conto che la matematica e la fisica devono la loro esattezza (il noto adagio “la matematica non è un’opinione” ce lo ricorda) al fatto che, basandosi unicamente su simboli, sono astratte, e in quanto tali non hanno alcuna relazione diretta con la realtà.
La scienza, cioè, per poter giungere a risultati certi, chiari e privi di contraddizioni, nei suoi esperimenti e nelle sue formulazioni deve semplificare il più possibile i termini della questione in oggetto, per cui ciò che alla fine ne vien fuori non è che un’ astrazione, e cioè l’ idea che noi ci facciamo della realtà (necessariamente approssimata), e non la realtà.
Insomma, la mappa, e non il territorio, come sentenzia Alfred Korzybski, esperto di semantica.
E se in molti casi grazie alla scienza possiamo giungere a una conoscenza certa e ad elaborare una teorìa esatta è perchè il divario tra la mappa e il territorio è minimo, e quindi trascurabile dal punto di vista pratico, ma nell’ambito dei sistemi complessi, come gli organismi viventi e i sistemi ecologici, dove le interazioni sono di tipo non–lineare e così numerose da essere in parte ignote o non investigabili, i criteri e il metodo perseguiti dagli scienziati, basati sulla visione riduttiva e meccanicistica della natura, fanno acqua come un colabrodo.
Questo concetto, ampiamente dimostrato e confermato da più parti (anche se ovviamente nessuno scienziato si sognerebbe di ammetterlo ufficialmente), è testimoniato dal fatto che nell’ ambito della biologia e della medicina scientifica le certezze incrollabili sono davvero molto poche, come qualsiasi onesto “addetto ai lavori” può confermare, a dispetto di ciò che si vuole far credere, o di quanto la gente comune possa pensare.
Il perenne brancolare nel buio degli scienziati porta a formulare teorìe che sembrano tutte regolarmente destinate ad una inesorabile scadenza, vicina o lontana che sia, come i vasetti di yogurt, in corrispondenza della quale devono essere necessariamente aggiornate dalle nuove conoscenze nel frattempo acquisite, e non di rado invalidate.
Inoltre i medici non sono in grado di offrire trattamenti personalizzati, in quanto tutto viene omologato su valori statistici, che però non hanno alcun significato clinico quando rapportati all’ individuo, e sintomi uguali, che possono avere mille cause diverse, ricevono tutti la stessa terapìa che il protocollo prevede.
Dal mio punto di vista non è difficile capire la vera ragione di tutto questo stato di cose, individuabile, come qualsiasi conoscitore di discipline olistiche sa, nella mancanza di un princìpio. O più precisamente, un princìpio che abbia valenza interdisciplinare, come la “bussola universale” di cui ha parlato tante volte Ohsawa.
Essendo la scienza concentrata esclusivamente sui particolari, che l’analisi permette di studiare, finisce inevitabilmente col perdere la visione globale, e con essa la comprensione del filo conduttore che unisce le singole parti tra di loro nel contesto di appartenenza, e che dà un senso al tutto.
Nell’antichità invece, quando ovviamente non si disponeva delle conoscenze scientifiche moderne, si è per forza di cose dovuto procedere in modo diametralmente opposto, sviluppando così, attraverso l’ osservazione e l’ intuizione, il pensiero associativo, basato sul princìpio dell’ analogìa, che riconosce la similitudine esistente fra fenomeni apparentemente diversi ed estranei fra loro, e non sull’ analisi, che invece si propone di individuare le differenze fra gli stessi.
Questo modo di osservare la natura, complementare a quello a noi ben noto, porta all’ individuazione di schemi e princìpi che si ritrovano e si ripetono sistematicamente in tutti i fenomeni. Così ciò che si perde in dettaglio si guadagna in termini di visione d’ insieme.
Il princìpio yin-yang è certamente l’ esempio più noto di questo criterio di interpretare la fenomenologìa universale, ma non è esclusivo della macrobiotica. Essendo di origine molto antica, esso si ritrova come princìpio ispiratore del Taoismo, del Confucianesimo, come pure nella medicina tradizionale cinese, di cui costituisce il fondamento, anche se usato in una diversa accezione.
Ma per non complicare le cose, per il momento vi basti sapere che yin e yang non hanno un significato come lo intendiamo noi nella nostra lingua quando vogliamo indicare un sostantivo o un attributo, ma piuttosto sono da intendere come delle categorìe in cui sono inventariati tutti i fenomeni e gli attributi percepibili dai nostri sensi.
Anche se ad una qualsiasi mente razionale può sembrare assurdo accostare elementi eterogenei ed assolutamente estranei l’uno all’ altro riunendoli in un’ unica categorìa, in realtà essi rivelano tutti un comune denominatore, un’analogìa, non sempre evidente di primo acchito, ma assolutamente presente.
Per rendere meglio l’idea, si potrebbe paragonare ognuna di queste categorìe al concetto a noi più familiare di insieme matematico, e questo è sufficiente a dare una dignità di scienza a questa millenaria concezione dell’ universo.
Ma cos’è che ci fa classificare qualcosa come yin, oppure come yang? Qual è questo comune denominatore, questo princìpio analogico che è possibile individuare in ognuna delle due categorìe?
E’ ciò che vedremo nella prossima puntata.
Michele Nardella
http://nardellamichele.blogspot.it/
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