Salve a tutti! Il titolo sembra quasi di un trattato serio, ma non fatevi ingannare 😉
La situazione alimentare è oggi peggiore di un tempo, nonostante fino a quache decennio fa non si mangiasse in modo sano ed equilibrato.
Infatti simbolo della tradizione culinaria (e non solo) popolare ferrarese è il maiale, detto “al maiàl”. Credo si capisca già di dove sono 🙂
Una volta il maiale era alimentato più naturalmente e allevato talvolta anche in casa per paura che lo rubassero: era necessario per la sopravvivenza.
Diciamo però che ora è necessario per la sopravvivenza non avercelo in casa 😉 anche se conosco qualcuno che ce l’ha ancora… a due zampe! 😀
Poi ce n’era uno all’anno da mangiare, per ogni famiglia.
Oggi ne mangiamo anche tutti i giorni o quasi perchè ce n’è in abbondanza, così ci infagottiamo di grassi animali comprensivi di antibiotici, coloranti, e carne cresciuta con mangimi OGM, perchè non vengono più alimentati con gli scarti naturali delle nostre tavole bensì in allevamenti intensivi con tutto ciò che ne consegue e che già sappiamo.
Qualche giorno fa al paesello, ho sentito un anziano dire ad un altro a mò di sbeffeggio tipico: “tasi che ‘na volta at magnavi dl’insalata cunzàda con la guazza” (trad: taci che una volta mangiavi dell’insalata condita con la rugiada)!
Nel senso che non ce n’era da mangiare e che quindi non facesse ora il sofisticato o l’intenditore per i prodotti che compra e mangia.
Ma c’è un fondo di verità in ogni detto, e un retrogusto amaro in questa frase, perchè in effetti oggi si tende a mangiare in maniera esagerata (per retaggio di quegli anni poveri) e senza sottilizzare troppo sulla qualità.
E invece dovremmo stare più attenti proprio perchè è cambiato tutto: insieme all’abbondanza adesso troviamo il nocivo.
Va bene, la carne di maiale è nella cultura culinaria della nostra zona e non solo, difficile spodestarlo specie nelle persone di una certa età, che da piccoli aspettavano “ad sfàr al maial” (di “disfare” il maiale: nel senso di macellarlo e prepararlo), il che avveniva nei giorni prima delle festività natalizie.
Era quindi una festa.
Ma le conseguenze a cui porta ora questa tradizione le conosciamo, soprattutto i medici. E dobbiamo farlo capire.
Eh già, una volta era proprio diverso. C’erano i detti popolari tramandati dagli anziani a cui poter fare riferimento, e non la televisione…
Mi piace ricordarne alcuni che ho ritrovato, attinenti all’alimentazione, sono simpatici e certi forse ancora utili:
“butàr via i oss dla pulenta” (buttare le ossa della polenta) sempre in riferimento alla carenza antica quando si mangiava tutto.
“la vivànda vèra l’è la bòna zzièra” (la vivanda vera è la buona cera) se non si possiede una buona salute, il superfluo non serve a nulla.
“chi vòl essàr ssèmpar ssan, pissa sspèss còm i can” (chi vuol essere sempre sano, orini spesso come i cani) quì non occorre spiegazione 🙂 se non di bere molto durante il giorno.
“persagh, figh e mlòn: ogni quèl al gà la so stasòn” (pesche, fichi e melone: ogni cosa ha la sua stagione) oggi invece si è persa completamente la cognizione della stagionalità.
“quand al vilàn al magna ‘na galìna o l’è malà lù o è malà la galina” (quando il contadino mangia una gallina o è malato lui o è malata la gallina) anche le galline erano fonte di sostentamento per le uova e la cova.
Insomma, alcuni insegnamenti dei nostri nonni rimangono buoni.
E le tradizioni sono importanti, ma non devono comunque nuocere e quindi sono da valutare per l’epoca in cui viviamo ora.
Ma allora si stava meglio quando si stava peggio? 😀
Infine un racconto nostalgico, per chi ha resistito leggendo fino a quì. Un racconto di quelli che mi piacciono, specie se raccontati a voce dai nonni.
A quelcuno di una certa età poi, forse ricorda qualcosa. Ai più giovani invece per curiosità.
Tratto dal calendario “La Fràra d’na vòlta” del 2009.
“nonni e bisnonni”
Una tipica cucina dei nostri nonni era costituita da una stanza munita da un lato di un ampio camino triangolare sovrastante “l’aròla” chiamata anche ròla, di pietra, sulla quale ardeva il fuoco necessario per cucinare e per riscaldare l’ambiente.
Sul cordolo erano allineati in ordine alcuni lumi di ottone alimentati ad olio, un ferro da stiro di quelli a metallo pieno, una scatola di latta contenente i fiammiferi, un grande lunario con i pronostici, i consigli per la semina e per gli altri lavori nei campi. Sul cordolo si poggiava pure, quando lo si possedeva, il fucile da caccia e la relativa cartuccera con tutte le cartucce.
Fianco alla ròla si trovava “al canton di sticch” era un angolo delimitato da una muratura, nel quale trovavano posto stecchi o canapuli utili per facilitare l’accensione del fuoco.
Quando il cantone era vuoto lo si riforniva prelevando gli stecchi dalla “sticcara” la quale era una catasta posta in corte.
I cibi venivano cotti sull’aròla, la polenta era preparata dentro la “stagnà”, la quale era appesa sotto la cappa del camino; le patate si arrostivano sotto la calda cenere mentre i salsicciotti, chiamati “i murlìn ad salzizza”, infilati in una forchetta, erano abbrustoliti direttamente sulla fiamma dei ceppi.
Baci a tutti.
😀 Riccardo Elfo Beltrami
Wellness Angel
www.autodifesalimentare.it/ferrara.htm
Delizioso il tuo articolo Elfo!
Devo dire che quando ti ci metti ci regali delle belle perle, mi piace molto quando tiri fuori i detti popolari della tua terra, mi fanno ricordare che non siamo tutti automi dietro un carrello in fila alla cassa di un supermercato globalizzato… 😕
Grazie! Un mega abbraccio!
PS. però Babe me lo lasci stare in pace? Lui vuole fare il cane da pastore!!! 😉
Mamma mia Riky che meraviglia il tuo articolo!!! Quanti ricordi mi sono tornati in mente, tutti i detti dei miei adorati nonni e poi dai il nostro dialetto è troppo forte e diciamolo, a volte, pure saggio!!!! 🙂
Grande Elfo!!!
Sei proprio rustico!!! 😀